Anatole France è stato raffigurato come un letterato in pantofole inetto all’agire, poco o punto sensibile al travaglio del vivere sociale. Siffatto equivoco, nel quale è caduto un pullulìo di vecchi studiosi, continua a pesare, come una costante interpretativa, sulla critica franciana, in un intrecciarsi di consensi e dissensi. Eppure France dà voce ad un egualitarismo di tipo babouvista in tutti i decisivi “débats et combats” della sua epoca tra le più inquiete della storia di Francia: il boulangismo, Panama, l’affare Dreyfus, l’anarchismo, il nazionalismo, l’antisemitismo, la separazione della Chiesa e dello Stato.
Nelle pagine di France si colgono alcuni costanti motivi diatribici: l’avversione ad ogni potere tiranno, il disdegno per la trascendenza, la condanna del militarismo, la ribellione contro la nefasta amministrazione della giustizia.
La mutata temperie politica, seguita al tramonto del mito del novus ordo, determinò in France lo sconforto amaro di chi avverte nell’animo il buio del nulla sì da sospingerlo verso i gelidi lidi dell’Isola dei Pinguini, che suggella il ritorno dello scrittore al libertarismo, ma con un più possente carico eversivo contro la marcescente società borghese-capitalistica segnata dall’“industrie meurtrière, la spéculation infame, le luxe hideux”.
Questo studio reca chiaramente in luce alcuni particolari del tutto ignoti agli studiosi: la collaborazione al Fanfulla, i discorsi romani, le interviste alla Tribuna e al Giornale d’Italia, le lettere al conte Primoli.
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